Due milioni e duecentomila donne hanno perso il lavoro nel 2020 a causa del Covid e dei 101mila nuovi disoccupati in Italia, 99mila sono donne. Due dati che bastano agli esperti per descrivere questo periodo come una She-cession, una recessione al femminile: la pandemia ha infatti ulteriormente esacerbato le difficoltà che le donne incontrano nell’entrare e nel rimanere nel mercato del lavoro, così come nel raggiungere i livelli più alti della carriera.
Due milioni e duecentomila donne hanno perso il lavoro nel 2020 a causa del Covid e dei 101mila nuovi disoccupati in Italia, 99mila sono donne. Due dati che bastano agli esperti per descrivere questo periodo come una She-cession, una recessione al femminile: la pandemia ha infatti ulteriormente esacerbato le difficoltà che le donne incontrano nell’entrare e nel rimanere nel mercato del lavoro, così come nel raggiungere i livelli più alti della carriera. A far cambiare la situazione non mancano i moniti dei vari organismi internazionali, dall’Ocse all’Unione Europea; anche la Banca d’Italia ha recentemente sottolineato il fatto che una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro avrebbe un impatto positivo sulla situazione economica. Tuttavia, questi moniti non sembrano ancora trovare molta eco nel mondo delle imprese se, come rivela uno studio condotto dall’Institute for Business Value di Ibm, per il 70% delle aziende colmare il gender gap (e il gender Pay gap), non rientra fra le prime dieci priorità.
Settore che vai, gender gap che trovi
Solo la pubblica amministrazione, con le sue progressioni automatiche e non legate al merito, è parzialmente in controtendenza rispetto al divario salariale fra uomini e donne: in questo settore, infatti, il gap retributivo si attesta al 4%. Le differenze di retribuzione arrivano invece fino al 20% nel settore privato italiano e non risparmiano il mondo delle professioni: secondo un’indagine svolta dal Sole24Ore, i redditi di avvocate, architette, ingegnere, commercialiste sono del 35% inferiori rispetto a quelli dei colleghi uomini, con il gap che si allarga nelle fasce di età più alte, segno che non esiste l’incremento dovuto alla carriera che si registra nel mondo al maschile. Secondo l’Ocse il divario medio nella paga oraria lorda fra uomini-donne è pari al 5,6%.
Mancano le donne nelle posizioni chiave
Sempre secondo il report Ibm, rispetto al 2019 sono diminuite le figure femminili in posizioni che potrebbero favorire il passaggio alla responsabilità dirigenziale, segno che fa prevedere un'ulteriore riduzione delle donne presenti ai livelli alti delle aziende. Lo confermano due studi settoriali rilasciati in questo periodo. La First-Cgil ha analizzato il settore italiano del credito, in cui il 48% dei 300mila dipendenti sono donne, con una crescita significativa rispetto al 1997, quando sette bancati su dieci erano uomini. Come sempre, però, le donne non entrano nella stanza dei bottoni: esse sono infatti il 57,9% nei ruoli più bassi, ma solo il 36,2% dei quadri e il 15,7% fra i dirigenti. Non va meglio nel settore high-tech, tradizionalmente poco frequentato da donne: secondo uno studio Boston Consulting Group, queste ultime rappresentano il 47% della forza lavoro in ambito tecnologico, ma solo il 28% nelle posizioni di leadership.
Part time? No, grazie
In Italia un terzo delle donne lavora part time, spesso con una riduzione dell’orario non richiesta. E se finora il part time era stato visto come una grande conquista in termini di conciliazione fra attività professionale e lavoro di cura, ora cominciano a emergere i limiti di questa scelta. Il part time ha infatti un costo non indifferente in termini di riduzione di salario, di pensione e di opportunità di carriera, che rende le donne ancora più “povere” e dipendenti dallo stipendio del marito o sempre più in difficoltà economica. Per capirlo basta un ultimo dato: le donne con figli che vivono in coppia sono solo il 53,5%, contro l’83,5% degli uomini.
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Scopri la proposta per risolvere il Gender pay gap: Gender pay gap: una proposta per colmare il divario